lunedì 26 febbraio 2007

Il club Dumas

Ho visto finalmente "La nona porta".
Dico subito che quando si guarda un film tratto da un libro (in questo caso “Il club Dumas”) che si è letto e che ci è piaciuto tanto, la prima cosa a cui si bada è valutare quanto il regista si sia tenuto fedele al libro, e generalmente si resta molto delusi.
Questa infedeltà è parte congenita e parte effettivamente imputabile al regista.

In questo caso, l'infedeltà innata (e quindi inevitabile) si nota soprattutto nel ritmo con cui si svolge la storia. Solo la pagina scritta può rendere le lunghe meditazioni e le lente ricerche del bibliofilo-cacciatore di libri. E così lentamente e progressivamente il protagonista trova e compone i tasselli del mosaico di cui lui stesso è un componente e mano a mano diventa più consapevole, pur non arrivando a svelare completamente la Verità (forse perché LA verità non esiste?).

Un altro importante aspetto del libro che nel film viene sacrificato è il continuo parallelo, l’appassionante legame nascosto tra il libro cercato ("Le Nove Porte Del Regno Delle Ombre") e il libro in cui ci s’imbatte (“Il Vino D’Angiò"). Qui, oltre alle difficoltà tecniche di rappresentare sullo schermo questo sotterraneo legame, il taglio è motivato dal dover in qualche modo limitare la durata del film.

Bisogna però fare i complimenti a Polanski perché con una serie di accorgimenti da cineasta ispirato e navigato riesce ad attenuare questi difetti congeniti. Il maggior merito da attribuirgli è senz’altro l'essere riuscito nell'arduo compito di mantenere gli aspetti più propriamente bibliografici al centro del racconto.

Quanto all'infedeltà "aggiunta", anche qui Polanski si dimostra virtuoso nell'evitare di farsi prendere la mano da una materia che si prestava a facili derive spettacolari del genere occulto. Misuratamente ha continuato a sviluppare e interpretare la trama originale, restando nel solco perfetto tracciato da Pérez-Reverte (l'autore del libro), rivelando ciò che andava rivelato e tenendo sotto un velo di mistero ciò che deve restare non spiegato e inspiegabile.

Su qualcosa, invece, mi sento di dire che Polanski è inciampato: la scelta del cast. Riconosco che dare un volto ai personaggi di un libro è come nominare l’Innominabile (tanto per restare in tema) , se non altro perché ognuno se ne crea una propria personale immagine mentre scorre le pagine del libro, buttandoci dentro le proprie passioni, il proprio sentire e il proprio gusto immaginativo.

Ma in questo caso Pérez-Reverte era stato magistrale anche nel delineare con pochi, precisi tratti i personaggi, i quali potevano essere rappresentati sullo schermo in tanti modi ma non, secondo me, con gli attori scelti.

Johnny Depp, pur bravo nel calarsi nella parte del detective dinoccolato, sagace e allo stesso tempo vittima degli eventi, non è fisicamente adatto al ruolo: ha troppo attaccata addosso l'immagine dell'eroe bello e dannato, che è tutta un'altra storia.

La ragazza, figura cruciale e delicatissima, era chiaramente presentata nel romanzo come una figura di una giovinezza senza età, eterea, dallo sguardo oscillante tra la profondità di un vortice e un'impenetrabilità da aliena. Invece ci ritroviamo Emmanuelle Seigner, anch'ella incolpevole, anzi talentuosa nel suo tentativo di interpretare un personaggio per il quale non era adatta.

Lo stesso discorso, ma invertito, si potrebbe fare per la figura della vedova Taillefer: in questo caso ci si aspettava un personaggio ben più banalmente coniugato a livello fisico: la classica quarantenne piacente dalle curve mozzafiato che farebbe la gioia di qualsiasi regista per la facilità della sua rappresentazione. E invece, forse proprio per non cedere a questa scelta comoda, Polanski predilige arricchirne l'immagine esterna privandola della perfezione ma ne impoverisce lo spessore psicologico che nel libro rendeva più complesso e completo il personaggio.

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